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Chiara Mezzalama Ostia mon amour

 

Alle volte di progetti se ne parla in modo contorto ed ermetico, quasi fossero retaggio esclusivo di professionisti e studiosi. Cosa si anima tra le pieghe di un idea, quanto questo patrimonio di esperienze e di ricordi sia condiviso da tutti, alle volte viene trascurato o sottaciuto. l'architettura è forse solo un altro modo di esprimere un desiderio, una volontà di cambiamento. Chiara Mezzalana, racconta la giornata di sopralluogo ad Ostia prima che il gruppo Tribù si cimentasse con l'arduo compito di dare una risposta al tema della riqualificazione del suo lungomare.

Un gruppo di giovani e promettenti architetti romani si recò ad Ostia,in un pomeriggio di mezza estate, per compiere un sopralluogo. Un sole violento imbiancava il cielo e l’aria che soffiava dal mare era calda e pareva tenere lontano l’orizzonte. Le macchine correvano veloci sull’asfalto pressoché liquefatto e urla di bambini provenivano dagli stabilimenti, soprattutto in prossimità delle piscine, che sembravano attirarli come lo zucchero attira le vespe. Il mare era leggermente increspato e torbido, emanava calore solo a guardarlo mentre le piscine, azzuri squarci trasparenti, davano un’immediata idea di frescura e spensieratezza in un pomeriggio qualsiasi di luglio, a scuole chiuse. Le mamme, con grandi zoccoli che risuonavano

sul pavimento del lido, il corpo sfatto ma ostentato con fierezza, trascinavano minuscoli bambini piagnucolanti, con le bocche ancora sporche di gelato ma già in preda ad altri desideri, la palla, il materassino, il capelluccio con la visiera, gli occhiali da sole di plastica; tutto l’armamentario che la spiaggia impone a quell’età per non restare fuori dai giochi.

Gli architetti erano sbarcati come alieni dalle loro macchine senza aria condizionata. Erano vestiti con stili diversi; chi come si trovasse ancora a studio in città, chi con il goffo abbigliamento di una gita improvvisata, chi più intonanto al contesto marittimo con i pantaloni corti e i sandali di cuoio, ma tutti mostravano i segni di un’eleganza o una voluta trasandatezza che tradivano provenienze inequivocabili. Si guardavano attorno stralunati, cercando la giusta inquadratura, il punto di fuga, la prospettiva. Chi con l’occhio digitale, chi con il quaderno stropicciato degli schizzi, la matita morsicata o il pennarello nero. Furono subito colpiti dall’incredibile quantità di automobili che invadevano in quadrupla

fila tutto il lungomare, con le carrozzerie ad arroventarsi nei raggi del sole e decuplicare la sensazione di caldo soffocante che già pervadeva l’aria pomeridiana. Madidi di sudore, ma senza dare a vedere alcun segno di sofferenza, gli architetti passeggiavano, misuravano, calcolavano, prospettavano, discettavano e silenziosamente si chiedevano dove avrebbero ficcato quell’ammasso indecente di macchine. Se qualcuno avesse ricordato loro che avevano sete, avrebbero bevuto, ma nessuno glielo ricordò

 

Per ognuno Ostia rappresentava qualcosa. E trovarsi lì, ad immaginare un riassetto rivoluzionario di tutta l’area, questo l’oggetto del concorso, dava loro la sensazione di star compiendo un’impresa, come quando da bambini si decide di costruire una città fino all’ultimo mattone di Lego rimasto, e poi di governarla. Mentre avanzavano sul lungomare qualcuno ogni tanto puntava il dito per indicare una palazzina, traccia di un tempo passato in cui si costruiva facendo architettura. Lo stato di totale abbandono e decadimento di alcune di queste aveva su di loro un effetto deprimente, simile a quello causato dalla mamma che arriva e dice “adesso rimetti tutto a posto, il gioco è finito”. Forse per questa ragione, per un bisogno di consolazione, forse per il caldo,decisero di fermarsi in

un bar nel Villaggio dei Pescatori e comprare dei ghiaccioli. Un pezzo di ghiaccio vagamente aromatizzato alla frutta, dentro cui s’infila uno stecco di legno sul quale alla fine rimane un morso solitario che non si riesce a raggiungere e che due volte su tre cade in terra, lasciando un vago senso di frustrazione, sfogato con il rosicchiamento del legnetto dolciastro. Ognuno rievocò il ghiacciolo preferito dell’infanzia, sotto gli occhi infastiditi dei pescatori che a quell’ora, ai tavoli, nel loro quartiere, giocavano a carte bevendo sambuca. Le barchette erano immobili nel canale, sospese, come nella vana attesa di raggiungere nuovamente il mare. Dopo la pausa, nel corso della quale qualcuno si ricordò di avere sete e comprò dell’acqua, gli architetti proseguirono il sopralluogo..

 

Per ognuno Ostia rappresentava qualcosa, dicevamo. Complessa stratificazione di vita vissuta e immaginaria. La duna odorosa, trionfo di macchia mediterranea, era stata per l’infanzia di qualcuno luogo di escursioni avventurose attraverso la tenuta presidenziale, alla scoperta di cervi e cinghiali che cercavano ristoro presso i fontanili, nell’ombra della pineta incantata. Per qualcun altro era fuga romantica, sulla sella dura di un motorino smarmittato, con una ragazza leggera avvinghiata ai fianchi per la paura di volare via, i capelli al vento e le ciabattine che scappavano dai piedi. La duna, rifugio d’amore, anche per coloro che rischierebbero il linciaggio alla luce del sole. Amori più o meno decenti che

lasciano di sé tracce di fazzoletti appallottolati e preservativi impigliati nelle reti metalliche arrugginite, effimeri ricordi. Ostia anni cinquanta, con le balere, le piste di pattinaggio, i costumi avvitati e gli spaghetti nel cestino del pranzo. A qualcuno venne in mente di riattrezzare l’area a quella maniera, per gioco e per nostalgia di un tempo in cui ci si divertiva con poco. Le facce scorbutiche dai sorrisi disarmanti dei ragazzi di quegli anni lì, ritratti in bianco e nero da artisti stranieri ammaliati dal fascino di una falsa ingenuità. Denti bianchi e zazzere al vento. Ragazze impacciate in pattino. Donne grasse e rumorose, bambini con il moccio al naso, uomini annoiati con la sigaretta pendula tra le labbra, occhiali da sole, creme abbronzanti, rotocalchi e giornali. L’umanità da spiaggia insomma, diversa negli anni solo per effetto delle mode

L’ombra di Ostia. Il Poeta, i marchettari, adesso travestiti, strusciarsi di corpi, di desideri proibiti. Qualcuno tra gli architetti subiva il fascino di quella decadenza. Nei pressi della stazione ferroviaria qualcuno fermò lo sguardo su una ragazza dalla sessualità indefinita, con le mutande strette sul culo, i capelli tagliati corti e un fare sfrontato da maschio. Tre macchine accostarono, la quarta la caricò. Intanto arrivò l’autobus che rovesciò adolescenti a quintali, qualche vecchio e qualche venditore da spiaggia nero con le scarpe sfondate, tutti stanchi per ragioni diverse, chi per il troppo sole, chi per il troppo buttarsi tra le onde e chi per il troppo camminare con sacchi sulle spalle, pesanti di ogni chincaglieria. Schiamazzanti ed eccitati i ragazzi salirono in fretta a baciarsi sui vagoni traballanti del treno, ultima gioia prima di tornare a casa. Gli architetti, stanchi anch’essi, si diressero al pontile. A qualcuno vennero in mente le architetture contemporanee, strutture ultraleggere che si appoggiano sul mare quasi per caso e che hanno rivoluzionato l’assetto di molte città del Mediterraneo. Il pontile di Ostia, massiccio e monumentale, fece ricordare altre epoche di orgoglio italico, di tedeschi sabotatori, spiagge minate, esplosioni, battaglie e voglia di ricostruire.

Venne il crepuscolo, le spiagge lentamente si svuotarono benché alcuni bagnanti si attardassero ancora negli ultimi raggi di un sole che si fece rosa e spruzzò qualche strascico pigro di nuvola. Il mare si scurì, parve improvvisamente diventare profondo e misterioso. Gli architetti alzarono la testa tutti insieme: un aereo passava con uno striscione “Ti amo Cate”. Qualcuno tra gli architetti già si amava, manifestamente, segretamente, qualcuno sognava l’amore, e giudicò quell’ostentazione sentimentale un gesto di meraviglioso patetismo e inutilità. Sicuramente Cate non ricambiava l’interessamento. Sicuramente Cate portava il tanga, gli occhiali avvolgenti di Chistian Dior e trascinava il passo con gli zoccoli. Sicuramente Cate era brutta perché abitava quei caseggiati da periferia urbana che fanno di Ostia una chimera, una periferia senza centro, un luogo di mare senza mare, una villeggiatura piena di traffico.
Sulla via del ritorno, nessuno degli architetti frastornati dal tanto osservare fece caso al cartello “Ostia antica”, ma uno di loro sognò di essere premiato con una corona di alloro. E così fu.

 

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