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Gomes
Mota &
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Saverio Siciliano / La trilogia del surf
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n°3:....
Francesca Patrizi / diario angolano
(1) :....
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Chiara
MezzalamaOstia
mon amour
Alle
volte di progetti se ne parla in modo contorto ed ermetico, quasi
fossero retaggio esclusivo di professionisti e studiosi. Cosa si
anima tra le pieghe di un idea, quanto questo patrimonio di esperienze
e di ricordi sia condiviso da tutti, alle volte viene trascurato
o sottaciuto. l'architettura è forse solo un altro modo di
esprimere un desiderio, una volontà di cambiamento. Chiara
Mezzalana, racconta la giornata di sopralluogo ad Ostia prima che
il gruppo Tribù
si cimentasse con l'arduo compito di dare una risposta al tema della
riqualificazione del suo lungomare.
Un
gruppo di giovani e promettenti architetti romani si recò
ad Ostia,in
un pomeriggio di mezza estate, per compiere un sopralluogo. Un sole
violento imbiancava il cielo e l’aria che soffiava dal mare
era calda e pareva tenere lontano l’orizzonte. Le macchine
correvano veloci sull’asfalto pressoché liquefatto
e urla di bambini provenivano dagli stabilimenti, soprattutto in
prossimità delle piscine, che sembravano attirarli come lo
zucchero attira le vespe. Il mare era leggermente increspato e torbido,
emanava calore solo a guardarlo mentre le piscine, azzuri squarci
trasparenti, davano un’immediata idea di frescura e spensieratezza
in un pomeriggio qualsiasi di luglio, a scuole chiuse. Le mamme,
con grandi zoccoli che risuonavano
sul
pavimento del lido, il corpo sfatto ma ostentato con fierezza, trascinavano
minuscoli bambini piagnucolanti, con le bocche ancora sporche di
gelato ma già in preda ad altri desideri, la palla, il materassino,
il capelluccio con la visiera, gli occhiali da sole di plastica;
tutto l’armamentario che la spiaggia impone a quell’età
per non restare fuori dai giochi.
Gli
architetti erano sbarcati come alieni dalle loro macchine senza aria
condizionata. Erano vestiti con stili diversi; chi come si trovasse
ancora a studio in città, chi con il goffo abbigliamento di
una gita improvvisata, chi più intonanto al contesto marittimo
con i pantaloni corti e i sandali di cuoio, ma tutti mostravano i
segni di un’eleganza o una voluta trasandatezza che tradivano
provenienze inequivocabili. Si guardavano attorno stralunati, cercando
la giusta inquadratura, il punto di fuga, la prospettiva. Chi con
l’occhio digitale, chi con il quaderno stropicciato degli schizzi,
la matita morsicata o il pennarello nero. Furono subito colpiti dall’incredibile
quantità di automobili che invadevano in quadrupla
fila
tutto il lungomare, con le carrozzerie ad arroventarsi nei raggi
del sole e decuplicare la sensazione di caldo soffocante che già
pervadeva l’aria pomeridiana. Madidi di sudore, ma senza dare
a vedere alcun segno di sofferenza, gli architetti passeggiavano,
misuravano, calcolavano, prospettavano, discettavano e silenziosamente
si chiedevano dove avrebbero ficcato quell’ammasso indecente
di macchine. Se qualcuno avesse ricordato loro che avevano sete,
avrebbero bevuto, ma nessuno glielo ricordò
Per
ognuno Ostia rappresentava qualcosa. E trovarsi lì, ad immaginare
un riassetto rivoluzionario di tutta l’area, questo l’oggetto
del concorso, dava loro la sensazione di star compiendo un’impresa,
come quando da bambini si decide di costruire una città fino
all’ultimo mattone di Lego rimasto, e poi di governarla. Mentre
avanzavano sul lungomare qualcuno ogni tanto puntava il dito per indicare
una palazzina, traccia di un tempo passato in cui si costruiva facendo
architettura. Lo stato di totale abbandono e decadimento di alcune
di queste aveva su di loro un effetto deprimente, simile a quello
causato dalla mamma che arriva e dice “adesso rimetti tutto
a posto, il gioco è finito”. Forse per questa ragione,
per un bisogno di consolazione, forse per il caldo,decisero di fermarsi
in
un bar nel Villaggio dei Pescatori e comprare dei ghiaccioli. Un
pezzo di ghiaccio vagamente aromatizzato alla frutta, dentro cui
s’infila uno stecco di legno sul quale alla fine rimane un
morso solitario che non si riesce a raggiungere e che due volte
su tre cade in terra, lasciando un vago senso di frustrazione, sfogato
con il rosicchiamento del legnetto dolciastro. Ognuno rievocò
il ghiacciolo preferito dell’infanzia, sotto gli occhi infastiditi
dei pescatori che a quell’ora, ai tavoli, nel loro quartiere,
giocavano a carte bevendo sambuca. Le barchette erano immobili nel
canale, sospese, come nella vana attesa di raggiungere nuovamente
il mare. Dopo la pausa, nel corso della quale qualcuno si ricordò
di avere sete e comprò dell’acqua, gli architetti proseguirono
il sopralluogo..
Per
ognuno Ostia rappresentava qualcosa, dicevamo. Complessa stratificazione
di vita vissuta e immaginaria. La duna odorosa, trionfo di macchia
mediterranea, era stata per l’infanzia di qualcuno luogo di
escursioni avventurose attraverso la tenuta presidenziale, alla scoperta
di cervi e cinghiali che cercavano ristoro presso i fontanili, nell’ombra
della pineta incantata. Per qualcun altro era fuga romantica, sulla
sella dura di un motorino smarmittato, con una ragazza leggera avvinghiata
ai fianchi per la paura di volare via, i capelli al vento e le ciabattine
che scappavano dai piedi. La duna, rifugio d’amore, anche per
coloro che rischierebbero il linciaggio alla luce del sole. Amori
più o meno decenti che
lasciano
di sé tracce di fazzoletti appallottolati e preservativi
impigliati nelle reti metalliche arrugginite, effimeri ricordi.
Ostia anni cinquanta, con le balere, le piste di pattinaggio, i
costumi avvitati e gli spaghetti nel cestino del pranzo. A qualcuno
venne in mente di riattrezzare l’area a quella maniera, per
gioco e per nostalgia di un tempo in cui ci si divertiva con poco.
Le facce scorbutiche dai sorrisi disarmanti dei ragazzi di quegli
anni lì, ritratti in bianco e nero da artisti stranieri ammaliati
dal fascino di una falsa ingenuità. Denti bianchi e zazzere
al vento. Ragazze impacciate in pattino. Donne grasse e rumorose,
bambini con il moccio al naso, uomini annoiati con la sigaretta
pendula tra le labbra, occhiali da sole, creme abbronzanti, rotocalchi
e giornali. L’umanità da spiaggia insomma, diversa
negli anni solo per effetto delle mode
L’ombra
di Ostia. Il Poeta, i marchettari, adesso travestiti, strusciarsi
di corpi, di desideri proibiti. Qualcuno tra gli architetti subiva
il fascino di quella decadenza. Nei pressi della stazione ferroviaria
qualcuno fermò lo sguardo su una ragazza dalla sessualità
indefinita, con le mutande strette sul culo, i capelli tagliati
corti e un fare sfrontato da maschio. Tre macchine accostarono,
la quarta la caricò. Intanto arrivò l’autobus
che rovesciò adolescenti a quintali, qualche vecchio e qualche
venditore da spiaggia nero con le scarpe sfondate, tutti stanchi
per ragioni diverse, chi per il troppo sole, chi per il troppo buttarsi
tra le onde e chi per il troppo camminare con sacchi sulle spalle,
pesanti di ogni chincaglieria. Schiamazzanti ed eccitati i ragazzi
salirono in fretta a baciarsi sui vagoni traballanti del treno,
ultima gioia prima di tornare a casa. Gli architetti, stanchi anch’essi,
si diressero al pontile. A qualcuno vennero in mente le architetture
contemporanee, strutture ultraleggere che si appoggiano sul mare
quasi per caso e che hanno rivoluzionato l’assetto di molte
città del Mediterraneo. Il pontile di Ostia, massiccio e
monumentale, fece ricordare altre epoche di orgoglio italico, di
tedeschi sabotatori, spiagge minate, esplosioni, battaglie e voglia
di ricostruire.
Venne
il crepuscolo, le spiagge lentamente si svuotarono benché
alcuni bagnanti si attardassero ancora negli ultimi raggi di un
sole che si fece rosa e spruzzò qualche strascico pigro di
nuvola. Il mare si scurì, parve improvvisamente diventare
profondo e misterioso. Gli architetti alzarono la testa tutti insieme:
un aereo passava con uno striscione “Ti amo Cate”. Qualcuno
tra gli architetti già si amava, manifestamente, segretamente,
qualcuno sognava l’amore, e giudicò quell’ostentazione
sentimentale un gesto di meraviglioso patetismo e inutilità.
Sicuramente Cate non ricambiava l’interessamento. Sicuramente
Cate portava il tanga, gli occhiali avvolgenti di Chistian Dior
e trascinava il passo con gli zoccoli. Sicuramente Cate era brutta
perché abitava quei caseggiati da periferia urbana che fanno
di Ostia una chimera, una periferia senza centro, un luogo di mare
senza mare, una villeggiatura piena di traffico.
Sulla via del ritorno, nessuno degli architetti frastornati dal
tanto osservare fece caso al cartello “Ostia antica”,
ma uno di loro sognò di essere premiato con una corona di
alloro. E così fu.
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